Avv. Antonio Zecca |
Studio Legale |
Cass. Pen. SS.UU. Sentenza 25 gennaio-8 marzo
2005, n. 9163
Svolgimento del processo
1.0 Verso le ore 4 del 27 dicembre 2001 G.R.,
dinanzi alla porta della propria abitazione;sul pianerottolo condominiale,
esplodeva due colpi di pistola all’indirizzo di Vittorio Alemanno, che
attingevano la vittima all’altezza del collo e della testa, provocandone la
morte. Agenti della polizia di Stato, prontamente intervenuti a seguito di
segnalazioni, trovavanoR. ancora con la pistola in pugno, e questi esclamava al
loro indirizzo: “Sono stato io, così ha finito di rompere”; all’ intimazione di
gettare l’arma ed alzare le mani, egli non ottemperava all’invito, continuando a
brandire la pistola e rivolgendo minacce agli astanti, compresi alcuni condomini
frattanto accorsi dopo gli spari, sicché gli operanti erano costretti ad
intervenire con la forza, disarmandolo e immobilizzandolo. Al rumore degli
spari, si era destata anche C.P., moglie di Alemanno, la quale, accortasi che il
marito non si trovava a letto, s’era recata pur ella sul pianerottolo
condominiale, al piano inferiore, ed ivi aveva notato il coniuge riverso per
terra ed aveva cercato di soccorrerlo;R., puntatale contro la pistola, le aveva
detto: “ora ammazzo pure te...” e, in un secondo momento, le aveva puntato
l’arma contro la tempia.
Già dai primi atti di indagine, e dalla stessa confessione diR., si appurava che
l’omicidio era maturato in un clima di ripetuti diverbi condominiali, originati
da presunti rumori dell’autoclave provenienti dall’appartamento della vittima,
posto al piano superiore rispetto a quello dell’omicida, che più volte avevano
indottoR. a disattivare, recandosi in cantina, l’impianto della energia
elettrica: tanto era avvenuto anche quella mattina e, risalendo l’omicida al
quinto piano, ove era ubicata la sua abitazione, aveva incontrato Alemanno: ne
era scaturita l’ennesima lite, che si era conclusa in quella maniera tragica.
1.1 G.R. veniva tratto al giudizio del Gip del tribunale di Roma per rispondere dei reati di cui agli articoli 61, numeri 1, 4 e 5, 575, 577, n. 3; 337; 61, n. 2, 81, 612, comma 2, Cp.
Procedutosi con rito abbreviato, condizionato ad
un poi espletato accertamento peritale sulla capacità di intendere e di volere
dell’imputato e sulla sua pericolosità, quel giudice, con sentenza del 4 marzo
2003, dichiarava l’imputato medesimo colpevole dei reati ascrittigli,
unificati sotto il vincolo della continuazione, riconosciutagli la diminuente
del vizio parziale di mente prevalente sulla contestata aggravante, esclusa la
premeditazione e le aggravanti di cui all’articolo 61, nn. 1 e 4, Cp, e lo
condannava alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione ed alla pena
accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici; disponeva la misura
di sicurezza della assegnazione ad una casa di cura e di custodia per la durata
minima di tre anni, e la confisca dell’arma e delle munizioni in sequestro; lo
condannava, infine, al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede,
in favore delle costituite parti civili, cui assegnava delle provvisionali.
1.2 Nel pervenire alla resa statuizione quanto al ritenuto vizio parziale di
mente, il giudice del merito rilevava che nel corso del procedimento erano stati
eseguiti più accertamenti tecnici al riguardo. Una prima consulenza psichiatrica
disposta dal Pm aveva individuato a carico dell’imputato “un disturbo della
personalità di tipo paranoideo in un soggetto portatore di una patologia di tipo
organico, consistente un una malformazione artero-venosa cerebrale” ed aveva
concluso ritenendo “nel soggetto la piena capacità di intendere ed escludendo
invece nel medesimo la capacità di volere ritenuta ‘grandemente scemata”.
Una seconda consulenza tecnica disposta dal Pm in una prima stesura «individuava nell’imputato la totale incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, in quanto “affetto da crisi psicotica paranoidea”». In una seconda stesura del relativo elaborato tecnico, lo stesso consulente rivedeva parzialmente le sue precedenti affermazioni, concludendo per “la sussistenza nel periziato di una parziale capacità complessiva, scaturente da una piena capacità di intendere e da una incapacità di volere limitatamente al momento della commissione del fatto, trattandosi di un soggetto non psicotico, bensì con personalità bordeline di tipo paranoideo”.
Il perito nominato dal giudice “concludeva nel
senso di una parziale capacità di intendere e di volere del detenuto e di una
sua attuale pericolosità sociale”. In particolare, egli escludeva “un disturbo
bordeline, individuando invece... un disturbo paranoideo... frammisto ad
elementi appartenenti al disturbo narcisistico di personalità”; ricostruiva «il
percorso psicopatologico della personalità del soggetto individuato in un
“nucleo depressivo profondo, legato ad avvenimenti personali ed in grado di
determinare radicati sentimenti di inabilità, insufficienza, inadeguatezza”...»,
che avrebbero «portato ilR. per anni ad alimentare “vissuti fortemente
persecutori e tematiche di natura aggressiva, come risposta alla incapacità di
assumersi la responsabilità dei propri fallimenti esistenziali”, fino a
polarizzare la propria esistenza intorno a “contenuti ideici che non possono
essere definiti deliranti, ma che possono essere compresi attraverso la
definizione psichiatrica di “idee dominanti”...», ritenendo, quindi, sotto il
profilo della capacità di volere e dì autodeterminazione, «che ilR. “abbia
sperimentato, mediante la totale invasività del pensiero persecutorio con le
caratteristiche delle idee dominanti, uno scardinamento delle proprie labili
capacità di controllo delle scariche impulsive e della propria aggressività...,
si tratta di un passaggio all’atto in cui il libero dispiegarsi dei meccanismi
della volontà viene impedito dal massiccio vissuto persecutorio”...»; e che
«l’imputato abbia posseduto nelle fasi immediatamente prima del delitto, come
attualmente, “una compromissione della capacità di intendere, che, se non giunge
alla grave destrutturazione tipica delle autentiche esperienze psicotiche, si
caratterizza per una profonda anomalia del pensiero”..»: tale ausiliario dei
giudice concludeva, quindi, per la sussistenza di «una condizione
psicopatologica in cui entrambe le capacità di intendere e di volere erano
significativamente danneggiate, ma senza giungere al loro totale azzeramento»,
ulteriormente chiarendo che, «quanto alla patologia organica accusata
dall’imputato e consistente in una malformazione artero-venosa cerebrale» era da
escludere «che essa abbia avuto un ruolo esclusivo nell’infermità psichiatrica
anche se certamente contribuisce a determinare la particolare condizione del
predetto, incidendo negativamente sulle sue capacità di volizione»: in sostanza
- annota la sentenza di prime cure - «il perito esclude un disturbo psicotico
delirante», e ritiene che «il periziato soffre di un disturbo paranoideo per
effetto del quale la capacità di intendere e di volere è compromessa, ma non del
tutto esclusa».
Il giudice riteneva del tutto condivisibili tali conclusioni peritali, cui erano
pervenuti, in sostanza, «pur attraverso percorsi diversi», «tutti i consulenti
tecnici, compresi quelli della parte civile» che avevano affermato, in una loro
prodotta relazione, che «ci sembra corretto ritenere che il soggetto possa al
massimo essere ritenuto seminfermo di mente».
1.3 Sui gravami dell’imputato, del Pg della Repubblica e delle parti civili, la
Corte di assise d’appello di Roma, con sentenza del 3 febbraio 2004, escludeva
la diminuente di cui all’articolo 89 Cp, riconosceva all’imputato le attenuanti
generiche equivalenti all’aggravante di cui all’articolo 61, n. 5, Cp,
rideterminava la pena, fissandola in anni sedici e medi otto di reclusione, e
revocava la misura di sicurezza dell’affidamento a casa di cura e custodia.
Quanto al punto concernente il vizio parziale di mente, rilevavano i giudici del
gravame che «né il perito nominato dal giudice, né i Ct del Pm hanno...
riscontrato nell’imputato, in sostanza, altro che disturbi della personalità,
sulla cui esatta definizione non si sono neppure trovati concordi», giungendo,
comunque, alla comune conclusione che «le anomalie comportamentali dell’imputato
non hanno causa in una “alterazione patologica clinicamente accertabile,
corrispondente al quadro clinico di una determinata malattia”... né in una
“infermità o malattia mentale o ... alterazione anatomico - funzionale della
sfera psichica”..., bensì in anomalie del carattere, in una personalità
psicopatica o psicotica, in disturbi della personalità che non integrano quella
infermità di mente presa in considerazione dall’articolo 89 del Cp».
2.0 Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, per mezzo del
difensore, denunziando:
a) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli articoli 89,
575 Cp. Deduce che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto degli esiti
delle disposte consulenze e perizia, e contraddittoriamente aveva escluso la
seminfermità di mente, pur dando atto che «la personalità dell’imputato era
certamente disturbata... e che tale disturbo fornì all’imputato stesso “gli
impulsi anomali a commettere quei particolari delitti contestatigli e, con la
pressione di un violento ed esasperato vissuto di persecuzione, gli attenuò le
capacità di autocontrollo»”; soggiunge che neanche si era tenuto conto «che gli
specialisti avevano evidenziato una vera e propria lesione organica
cerebrale..., sicché esisteva una base organica che indubbiamente ha contribuito
nello sviluppo della personalità di tipo paranoideo». Rileva, poi, che «la
valutazione dell’imputabilità è comunque del tutto erronea...», giacché «la
varietà delle infermità mentali è così complessa che non può racchiudersi
nell’ambito di tipologie circoscritte alla malattia», e che (all’uopo
richiamando arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte) «anche le
anomalie psichiche costituiscono vera e propria malattia ai sensi della legge
penale quando abbiano avuto un sicuro determinismo rispetto all’azione
delittuosa e quindi “un rapporto motivante con il fatto delittuoso
commesso”...»;
b) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione all’articolo 61,
n. 5. Cp. Lamenta il ricorrente che erroneamente sarebbe stata riconosciuta tale
aggravante, sul presupposto che l’imputato avrebbe profittato dell’ora notturna
e della circostanza che la persona offesa si era appena destata dal sonno, e
che, attesa l’ora tarda, difficilmente avrebbero potuto intervenire altre
persone per sedare la lite, laddove, invece, l’imputato aveva «agito soltanto
nel momento in cui l’impulso derivante dalla persecuzione è diventato per lui
irrefrenabile»; non avrebbero, inoltre, considerato i giudici dell’appello che,
«il fatto avvenne nelle scale condominiali del palazzo di cui erano condomini
sia ilR. che la vittima e quindi quest’ultimo, che era uscito di casa ben
consapevole che la luce era stata staccata proprio dalR., aveva ogni
possibilità, conoscendo i luoghi, di sottrarsi all’aggressione»:
c) vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione agli articoli 62bis,
133 Cp: erroneamente - assume il ricorrente - era stato escluso il giudizio di
prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante di cui all’articolo 61, n.
5, Cp, non valutandosi che l’imputato aveva agito «con la pressione di un
violento ed esasperato vissuto di persecuzione» e non tenendosi conto della sua
incensuratezza e della sua età (“circa settant’anni” all’epoca del fatti).
2.1 Il ricorso veniva assegnato alla Sezione prima penale di questa Suprema
Corte, la quale, con ordinanza del 13 ottobre 2004, ne disponeva la rimessione
alle Su, ai sensi dell’articolo 618 Cpp..
Si rilevava, difatti, che nella giurisprudenza di questa Suprema Corte era da
tempo insorto un contrasto, in ordine alla questione concernente il concetto di
“infermità” ai sensi degli articoli 88 e 89 Cp. Un “più risalente e consistente
indirizzo” ha ritenuto che, “in tema di imputabilità, le anomalie che
influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in
senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da
conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi
acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni
psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità
e non per quantità...”. Altro “indirizzo minoritario” ha, invece, ritenuto che
«il concetto di infermità mentale recepito dal nostro codice penale è più ampio
rispetto a quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le
malattie di mente inquadrate nella classificazione scientifica delle infermità,
nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche dei soggetti
affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato
grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di
una vera e propria psicosi ......»
2.2 Il primo Presidente ha fissato l’odierna udienza per la trattazione del
ricorso davanti a queste Su.
2.3 La difesa del ricorrente ha prodotto “note di udienza”, con le quali
ribadisce i motivi del ricorso, quanto alla questione concernente il vizio
parziale di mente, ulteriormente rilevando, in conclusione, che “è
auspicabile... che la Corte Suprema, stante la fluente modificazione del
concetto della classificazione delle malattie mentali, voglia ritenere
l’infermità di mente - cui fa riferimento l’articolo 89 Cp - cosa diversa dalla
malattia mentale, intesa come alterazione patologica in senso clinico”.
Motivi della decisione
3.0 Il primo motivo di ricorso - che nella prospettazione gravatoria assume propedeutico rilievo anche in riferimento agli altri profili di doglianza esplicitati - propone la questione che può così sintetizzarsi: se, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrino nel concetto di “infermità” anche i “gravi disturbi della personalità”.
1 Al riguardo, e sui temi
di fondo che afferiscono a tale questione, si registra da tempo un contrasto
giurisprudenziale nelle decisioni di questa Suprema Corte. Le oscillazioni
interpretative sono state essenzialmente determinate dal difficile rapporto tra
giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto dal momento in cui quest’ultima
ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza condivisi, ponendo in
crisi tradizionali elaborazioni metodologiche e, nel contempo, legittimando una
sempre più accentuata tendenza verso il pluralismo interpretativo; sicché - come
meglio più oltre si vedrà - accanto ad un indirizzo “medico” (all’interno del
quale si sono distinti un orientamento “organicista” ed uno “nosografico” si è
proposto quello “giuridico” (volta a volta accompagnato, o temperato, dal
criterio della patologicità, da quello della intensità, da quello eziologico),
che ha, in sostanza, sviluppato una nozione più ampia di infermità rispetto a
quello di malattia psichiatrica
4.0 La questione proposta involge delicati profili, oltre che sul piano della
teoria generale del reato, su quello del rapporto e dell’appagante
contemperamento delle due, spesso contrapposte, esigenze, della prevenzione,
generale o speciale, e del garantismo, che - per mutuare l’espressione di
autorevole dottrina - costituisce oggetto di una delle «sfide dei diritto penale
moderno o postmoderno». In tale contesto già circa un venticinquennio fa la
stessa dottrina, particolarmente attenta a tale tema, parlava di “crisi del
concetto di imputabilità”; e non sono mancate anche prese di posizioni
proponenti la abolizione, tout court, della categoria dell’imputabilità
dal sistema penale, concretizzatesi anche in proposte di legge, quella 177/83,
quella 151/96. La questione si pone su un piano che parte dal riconoscimento
all’imputabilità di un ruolo sempre più centrale e fondamentale, secondo la
triplice prospettiva “di principio costituzionale, di categoria dommatica del
reato, di presupposto e criterio guida della sanzione penale”.
4.1 L’articolo 85.2 Cp definisce (secondo una proposizione generale, priva di
ulteriori specifici contenuti) la imputabilità come la condizione di chi “ha la
capacità di intendere e di volere” e, come appare anche dalla sua collocazione
sistematica, all’inizio del titolo 4, dedicato al reo, determina una qualifica,
o status, dell’autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena (articolo
85.1 Cp). Tuttavia ‑ sostanzialmente concorde la dottrina ‑, nonostante tale
collocazione sistematica, la imputabilità non si limita ad essere una “mera
capacità di pena” o un “semplice presupposto o aspetto della capacità giuridica
penale” ma il suo “ruolo autentico” deve cogliersi partendo, appunto, dalla
teoria generale del reato; ed icasticamente si chiarisce al riguardo che, «se il
reato è un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e la colpevolezza non è
soltanto dolo o colpa ma anche, valutativamente, riprovevolezza,
rimproverabilità, l’imputabilità è ben di più che non una semplice
condizione soggettiva di riferibilità della conseguenza del reato data dalla
pena, divenendo piuttosto la condizione dell’autore che rende possibile la
rimproverabilità del fatto» essa, dunque, non è “mera capacità di pena”, ma
“capacità di reato o meglio capacità di colpevolezza”, quindi, nella sua
“propedeuticità soggettiva rispetto al reato, presupposto della colpevolezza”
non essendovi colpevolezza senza imputabilità.
4.2 Si è ulteriormente specificato che i confini di rilevanza ed applicabilità
dell’istituto della imputabilità dipendono, in effetti, anche in qualche misura
dal concetto di pena che si intenda privilegiare: nell’ottica retributiva di
questa, se la pena deve servire a compensare la colpa per il male commesso, non
può non rilevarsi che essa si giustifica solo nei confronti di soggetti che
hanno scelto di delinquere in piena libertà; sotto il profilo di un’ottica
preventiva, ponendosi in dubbio il rapporto tra libertà del volere e funzione
preventiva (in cui “il principio della libertà del volere non è più funzionale
alla fondazione e giustificazione della pena”), tale funzione preventiva potrà
rivolgersi solo a soggetti che siano effettivamente in grado di cogliere
l’appello contenuto nella norma, e fra questi non sembra che possano annoverarsi
anche i soggetti non imputabili, in quanto tali ritenuti non suscettibili di
motivazione mediante minacce sanzionatorie. E, sotto il profilo della
risocializzazione (che partecipa alla funzione di prevenzione speciale),
giustamente si è rilevato che “il collegamento psichico fra fatto e autore,
comunque necessario per dar senso alla risocializzazione, ancora una volta non
può che essere visto nella possibilità che il soggetto aveva di agire altrimenti
al momento del fatto commesso” in mancanza di tanto non avendo senso chiedersi
se il soggetto abbia bisogno di essere rieducato, dovendosi piuttosto ritenere
che egli non sia neppure in grado di cogliere il significato della pena e,
conseguentemente, di modificare i propri comportamenti.
Non sono queste la sede e l’occasione per ulteriormente approfondire, rivisitare
e delibare l’articolato e fecondo dibattito dottrinario al riguardo svoltosi -
dopo l’entrata in vigore della Carta Costituzionale e, segnatamente, del suo
articolo 27 - e per molti versi tuttora attuale. Gioverà nondimeno, ai fini che
qui pure interessano, rilevare che la preminente dottrina è orientata per una
teoria “pluridimensionale” o “plurifunzionale” della pena, sia pure con
impostazioni differenziate; e che la Corte Costituzionale, pur richiamando la
concezione, precedentemente affermata, c.d. “polifunzionale”, della pena, ha
evidenziato il profilo centrale della stessa, quello rieducativo, rilevando che,
«per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta
bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da
autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata
dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena ...; è per questo che,
in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea
alla legittimazione e alla funzione stesse della pena» (Corte costituzionale,
sentenza 313/90), ivi ricordando la stessa Corte che ciò aveva già portato “a
valorizzare il principio addirittura sul piano della struttura del fatto di
reato (sentenza 364/88)”.
4.3 E proprio sul versante del contenuto e della rilevanza del concetto di
colpevolezza, mette conto di rilevare che in tale ultima decisione (resa in
riferimento alla ritenuta parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 5
Cp), il Giudice delle leggi aveva richiamato come la puntualizzazione di quel
concetto non potesse essere disgiunta da un giudizio di rimproverabilità del
fatto; aveva ricordato, tra l’altro, l’approdo sistematico della «necessità, per
la punibilità del reato, della effettiva coscienza, nell’agente,
dell’antigiuridicità del fatto»; aveva sottolineato che la «olpevolezza
costituzionalmente richiesta... non costituisce elemento tale da poter essere, a
discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o
paradossalmente eliminato» e che ciò era testimoniato dalla «funzione di
garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla
pena attribuiscono alla colpevolezza», inalterati rimanendo, quale che ne sia il
fondamento considerato, «il valore della colpevolezza, la sua insostituibilità»,
la sua «indispensabilità... quale attuazione, nel sistema ordinario, delle
direttive contenute nel sistema costituzionale... Il principio di
colpevolezza..., più che completare, costituisce il secondo aspetto del
principio garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto», in un
sistema, come il nostro, che «pone al vertice della scala dei valori la persona
umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere
strumentalizzata)... » e «ritiene indispensabile fondare la responsabilità
penale su “congrui” elementi subiettivi».
4.4 Può, dunque, ritenersi consolidato e definitivo approdo ermeneutica -
costituzionale e sistematico che 1a «configurazione personalistica della
responsabilità - come ancora si esprime autorevole dottrina - esige che essa si
radichi nella commissione materiale del fatto e nella concreta rimproverabilità
dello stesso. Il che è quanto dire che deve essere possibile far risalire la
realizzazione dei fatto all’ambito della facoltà di controllo e di scelta del
soggetto, al di fuori delle quali può prendere corpo unicamente un’ascrizione
meccanicistica, oggettiva dell’evento storicamente determinatosi»: e di tale
approdo è necessario, ove occorra, tenere ineludibile conto nella
interpretazione della norma, essendo canone interpretativo pacifico che, ove
siano possibili più interpretazioni della stessa, deve prevalere ed essere
privilegiata quella costituzionalmente orientata e non confliggente con i
principi consacrati nella Carta fondamentale.
5.0 Quanto al disposto dell’articolo 85 Cp, si è pure pertinentemente già
rilevato che la formula normativa ha espunto ogni riferimento alla “libertà” e
alla “coscienza”, e, per altro verso, «ha “ridotto” la categoria naturalistica
all’ambito esclusivamente psicologico, privilegiando i due momenti intellettivo
e volitivo in senso stretto»; conseguentemente, la dottrina ha disatteso il
collegamento tra «capacità di intendere e di volere» e “coscienza e volontà”
dell’azione o omissione, ponendo in evidenza la reciproca autonomia ed
indipendenza di tali categorie concettuali, e la giurisprudenza di questa
Suprema Corte ha più volte tanto ritenuto ed affermato (Cassazione, Sezione
sesta, 4165/91; idem, Sezione terza, 1574/86; idem, Sezione prima, 10440/84;
idem, Sezione prima, 3502/79; idem, Sezione prima, 711/70; idem, Sezione prima,
385/69).
5.1 Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall’articolo 85 del
codice sostanziale, la capacità di intendere pacificamente si riconosce nella
idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad
“orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà”
e quindi nella capacità di rendersi conto dei significato del proprio
comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi
“una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta”
(Cassazione, Sezione prima, 13202/90); mentre la capacità di volere consiste
nella idoneità del soggetto medesimo “ad autodeterminarsi, in relazione ai
normali impulsi che ne motivano l’azione, in modo coerente ai valori di cui è
portatore”, “nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi
secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una
concezione di valore” nella attitudine a gestire “una. efficiente
regolamentazione della propria, libera autodeterminazione” (Cassazione, Sezione
prima, 13202/90, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti
(nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la dottrina; la
quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne
scienze sociali, in verità, “una volontà libera, intesa come libertà assoluta di
autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste”, dovendo piuttosto
la volontà umana definirsi libera, “in una accezione meno pretenziosa e più
realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli
impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca
ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a consentirgli scelte
consapevoli tra motivi antagonistici”.
5.2 Il riferimento della norma ad entrambi i suindicati concetti, la capacità di
intendere e quella di volere, rende poi evidente come, de iure condito,
la imputabilità debba essere congiuntamente riferita ad entrambe tali
attitudini, difettando essa in mancanza anche di una sola delle stesse. E’
prospettiva, semmai, solo de iure condendo quella proposta da una parte
della dottrina psichiatrica forense, di eliminare dal testo dell’articolo 85 Cp
il riferimento alla capacità di volere, restringendolo al solo profilo della
capacità di intendere (anche sulla scorta di quanto avvenuto in altre
legislazioni, in particolare quella federale statunitense del 12 ottobre 1984,
che ha accolto il solo concetto di capacità di intendere in tema di mental
ilIness e insanity defense), sul presupposto che l’altra, in
sostanza, si sottrae a qualsiasi riscontro empirico - scientifico e viene
affermata, volta a volta, o in virtù di una “finzione necessaria per la
sopravvivenza del diritto penale”, o come un “presupposto indimostrabile e in
quanto tale da accogliere a priori”, o come “un principio normativo
accolto dal diritto positivo e perciò imprescindibile dal punto di vista formale
per legittimare la distinzione fondamentale tra soggetti imputabili -
responsabili e soggetti non imputabili - irresponsabili”.
6.0 Gli articoli 88 e 89 Cp, per quanto nella specie interessa, costituiscono
specificazioni e puntualizzazioni di quel generale principio, ponendo parametri
normativamente predeterminati per la disciplina dell’istituto, unitamente ad
altri (articolo 95, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti;
articolo 96, sordomutismo; articoli 97, 98, l’età del soggetto, pur avvertendosi
che le cause codificate di esclusione della imputabilità non possono
considerarsi tassative).
Se deve convenirsi che, quanto al rapporto tra gli articoli 85 e 88, 89 Cp, la
imputabilità è normalmente considerata presente quando l’autore abbia raggiunto
la maturità fisio - psichica normativamente indicata (tenuto conto, per l’infradiciottenne,
del disposto dell’articolo 98 Cp) salvo che versi in una situazione di infermità
(Cassazione, Sezione prima, 13202/90), tanto costituendo (ancora per autorevole
voce della dottrina) “il compromesso, o il punto d’incontro, tra le esigenze
proprie dei principio di colpevolezza e quello della prevenzione generale”,
rimane che, in effetti, il concetto di imputabilità è, al tempo stesso, empirico
e normativo (che “normativamente si manifesta nella costruzione a due piani” nel
senso, che è dato innanzitutto alle scienze di individuare il compendio dei
requisiti bio- psicologici che facciano ritenere che il soggetto sia in grado di
comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla
previsione della sanzione punitiva, ed è mancipio del legislatore, poi, “la
fissazione delle condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalle
scienze empirico-sociali”, tale opzione legislativa implicando “valutazioni che
trascendono gli aspetti strettamente scientifici del problema dell’imputabilità
e che attengono più direttamente agli obiettivi di tutela perseguiti dal sistema
penale”.
7.0 Ora, è proprio sul versante dei sicuri ancoraggi scientifici che la proposta
questione presenta i più rilevanti aspetti di problematicità, in un contesto in
cui la dottrina parla, pressoché unanimemente, di “crisi della psichiatrica”, di
“una crisi di identità.... da alcuni anni attraversata” dalla scienza
psichiatrica, risultando “la classificazione dei disturbi psichici quanto mai
ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente
accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura
psichiatrica”; il che ha anche fatto dire ad altra autorevole dottrina che, in
effetti, “non può propriamente parlarsi di crisi dell’imputabilità. In
(relativa) crisi è infatti semmai... il concetto di malattia mentale”. E’ ben
vero, difatti, che la difficoltà di individuare tali sicuri ancoraggi
scientifici comporta ineludibili ricadute sul versante della necessaria
cooperazione tra il sapere scientifico da un verso ed il giudice, d’altro verso,
che di quel sapere deve essere fruitore.
7.1 La scienza psichiatrica propone, difatti, come è noto, paradigmi e modelli
scientifici diversi e tra loro conflittuali.
Secondo il più tradizionale e risalente paradigma medico, le infermità mentali
sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per
ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente
elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell’ottocento) afferma, in sostanza, la
piena identità tra l’infermità di mente ed ogni altra manifestazione patologica
sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della
loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità “certa e
documentabile”, escludendosi ogni peculiarità, sotto tale profilo, rispetto ad
altre manifestazioni patologiche; e comporta, quindi, che in tanto un disturbo
psichico possa essere riconducibile ad una malattia mentale, in quanto sia
nosograficamente inquadrato. Se ne è, quindi, inferito, tra l’altro, che
l’accertamento della causa organica rimarrebbe assorbito dalla sussumibilità del
disturbo nelle classificazioni nosografiche elaborate dalla scienza
psichiatrica, nel “quadro- tipo di una determinata malattia” (per cui “quando il
disturbo psichico e aspecifico non corrisponde al quadro -tipo di una data
malattia, non esiste uno stato patologico coincidente col vizio parziale di
mente”: così, ad esempio, Cassazione, Sezione prima, 930/79). Pur nell’ambito di
tale paradigma, non mancano, tuttavia, diversi riferimenti ad una prospettiva
c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di mente è da riconoscere in
presenza di uno stato o processo morboso, indipendentemente dall’accertamento di
un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale
(si è affermato, quindi, che, “se è esatto che il vizio di mente può sussistere
anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella
classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che
il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da una alterazione
patologica clinicamente accertabile...”: così Cassazione, Sezione prima,
9739/97).
7.2 Agli albori del ‘900, sotto l’influenza dell’opera freudiana (e con la
scoperta dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, “privo di
confini fisiologicamente individuabili” attraverso l’esame dei tre livelli della
personalità: l’Es, il livello più basso e originario, permanentemente
inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di
realtà; il Super Io, che costituisce la “coscienza sociale” e consente la
interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso
paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano
disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul
mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli
avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere
dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi
mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell’apparato psichico in cui
le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica
diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna” e, “quando
questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia
mentale”. Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non
solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività
psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto
dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche.
7.3 Intorno agli anni ‘70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo,
quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico
avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura
organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il
soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in
discussione anche la sua natura psicologica ed i principi della psichiatria
classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come
“malattia sociale”. Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati
orientamenti scientifici che rifiutano l’esistenza della malattia mentale come
fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. “antipsichiatria”, o “psichiatria
alternativa”).
7.4 Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano
un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo
psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua
origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di
tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano
in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione
eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione
“multifattoriale integrata”.
In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti
ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica
della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un
facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. psichiatria
dinamico-strutturale, che considera il comportamento umano sotto il duplice
aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione dei metodo
nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di
rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale,
ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio
consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima
comprensione” . In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione
(ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD10) dovrebbero assumere il valore di
parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie
interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici.
E’ stato anche rilevato che può, oggi, sicuramente ritenersi superata una
concezione unitaria di malattia mentale, affermatasi, invece, una concezione
integrata di essa, che comporta, tra l’altro, un approccio il più possibile
individualizzato, con esclusione del ricorso a categorie o a vecchi e rigidi
schemi nosografici.
7.5 In tale panorama di orientamenti della scienza psichiatrica moderna, spesso
contraddittori - che ha fatto anche dire a taluno che definire cosa sia oggi
l’infermità di cui agli articoli 88 e 89 Cp è un problema praticamente
insolvibile e affatto fittizio -, si rivendica all’area giuridico- penale la
determinazione del contenuto e della funzione del concetto di imputabilità e del
vizio di mente, esso – “implicando una presa di posizione su ciò che
l’ordinamento poteva pretendere da lui nella situazione data” - rimanendo una
“questione normativa di ultimativa competenza del giudice, il quale ne assume la
responsabilità di fronte alla società nel cui nome amministra la giustizia”.
Questa impostazione, consentendo la utilizza ione di “un modello funzional -
garantistico di giudizio sulla imputabilità, ... valorizza la persona come
soggetto dotato di libertà decisionale e di dignità, risultando in grado di
garantire il rispetto del principio di colpevolezza e nello stesso tempo delle
esigenze preventive”. E si soggiunge che, risolvendosi - come s’è detto - il
concetto di imputabilità sul duplice piano empirico e normativo, la sua
ridefinizione deve avvenire attraverso la valorizzazione delle più aggiornate
acquisizioni scientifiche, nonostante la pluralità dei paradigmi interpretativi
riscontrabile all’interno della scienza psichiatrica, riconoscendosi così il
primato dell’identità normativa, ma non prescindendosi dal necessario apporto
dell’identità empirica ed in tal guisa confermandosi la necessaria
collaborazione tra giustizia penale e scienza; e proprio per assicurare di fatto
una tale piena collaborazione, autorevole dottrina, attenta ai temi della
infermità di mente, è favorevole all’ampliamento delle cause di esclusione
dell’imputabilità, ricomprendendovi anche le nevrosi, le psicopatia e, in
genere, i c.d. disturbi della personalità.
8.0 La giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla questione relativa al
rilievo dei disturbi della personalità sul piano della imputabilità è, volta a
volta, contrassegnata dalla adesione ad uno od altro dei paradigmi suindicati,
con conseguenti oscillazioni interpretative.
Si è, quindi, affermato che “le anomalie che influiscono sulla capacità di
intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le
insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze
stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o
croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici
che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non
per quantità”, sicché “esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle
cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono
indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non
rilevanti ai fini dell’applicabilità degli articoli 88 e 89 Cp, in quanto hanno
natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e
costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali” (Cassazione,
Sezione sesta, 26614/03); le manifestazioni di tipo nevrotico, depressive, i
disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice
insufficienza mentale “non sono idonee a dare fondamento ad un giudiziodi
infermità mentale...” (Cassazione, Sezione prima, 7523/91); solo “l’infermità
mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare
escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l’imputabilità,
mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubitabilmente incidono sul
comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la capacità di
rappresentazione o di autodeterminazione” (Cassazione, Sezione prima, 13202/90);
l’eventuale difetto di capacità intellettiva determinata da semplici alterazioni
caratteriali e disturbi della personalità resta priva di rilevanza giuridica
(Cassazione, Sezione quinta, 1078/97); le semplici anomalie del carattere o i
disturbi della personalità non influiscono sulla capacità di intendere e di
volere, “in quanto la malattia di mente rilevante per l’esclusione o per la
riduzione dell’imputabilità è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato
patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera
intellettiva e volitiva dell’agente” (Cassazione, Sezione prima, 10422/97). In
particolare, dovendosi distinguere tra psicosi e psicopatia, si rileva che solo
la prima è da annoverare nell’ambito delle malattie mentali, mentre la seconda
va considerata una mera “caratteropatia”, ovvero una anomalia del carattere, non
incidente sulla sfera intellettiva e, quindi, inidonea ad annullare o fare
grandemente scemare la capacità di intendere e di volere (Cassazione, Sezione
prima, 299/91). E per tali ragioni, non vengono ricomprese tra le cause di
diminuzione od eliminazione della imputabilità le c.d. “reazioni a corto
circuito”, in quanto collegate a condizioni di turbamento psichico transitorio
non dipendente da causa patologica, ma emotiva o passionale (Cassazione, Sezione
prima, 9701/92).
Numerose sono le sentenze che possono iscriversi, con puntualizzazioni varie, in
tale indirizzo interpretativo: tra le altre, Cassazione, Sezione prima,
16940/04; idem, Sezione terza, 22834/03; idem, Sezione prima, 10386/86; idem,
Sezione prima, 13202/90; idem, Sezione prima, 7315/95; idem, Sezione quinta,
1078/97; idem, Sezione prima, 4238/86; idem, Sezione seconda, 3307/84.
8.1 Altra volta si è rilevato che gli stati emotivi e passionali possono
incidere, in modo più o meno incisivo, sulla lucidità mentale del soggetto
agente, ma tanto non comporta, per espressa previsione normativa, la diminuzione
della iinputabilità; perché tali stati assumano rilievo, al riguardo, è
necessario un quid pluris, che, associato ad essi, si sostanzi in un
fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure transeunte e
non inquadrabile nell’ambito di una precisa classificazione nosografica: e
l’esistenza o meno di tale fattore “va accertata sulla base degli apporti della
scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell’attuale quadro
normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà
mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale
rilevante, ai sensi degli articoli 88 e 89 Cp), ad alterazioni transeunti della
sfera psico - intellettiva che costituiscano il naturale portato degli stati
emotivi e passionali di cui sia riconosciuta l’esistenza” (Cassazione, Sezione
prima, 967/97). Il riconoscimento che anche le deviazioni del carattere possono
elevarsi a causa incidente sulla imputabilità, a condizione che su di esse si
innesti, o sovrapponga, uno stato patologico che alteri la capacità di intendere
e di volere, ha indotto una parte della giurisprudenza a ritenere, per un verso,
che le anomalie del carattere e le c.d. personalità psicopatiche determinino una
infermità di mente solo nel caso in cui, per la loro gravità, cagionino un vero
e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale; per altro verso, che la
personalità borderline non rilevi ai fini della imputabilità, pur
includendo la scienza psichiatrica tale disturbo tra le infermità (Cassazione,
Sezione sesta, 7845/97). Escludendosi tesi aprioristiche, si riconosce, in
alcune decisioni, che anche le c.d. “reazioni a corto circuito” - normalmente
ascritte al novero degli stati emotivi e passionali -, in determinate
situazioni, possano costituire manifestazioni di una vera e propria malattia che
compromette la capacità di intendere e di volere. “incidendo soprattutto
sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità
di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere,
quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni” (Cassazione, Sezione prima,
5885/97; idem, Sezione prima, 3170/94; idem, Sezione prima, 12429/94; idem,
Sezione prima, 12366/90; idem, Sezione prima, 4492/87; idem, Sezione prima,
14122/86); si esclude rilievo a tali “reazioni a corto circuito” quando esse si
colleghino a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni
comportamentali prive di substrato organico, richiedendosi, perché rilievo
possano assumere, che esse si inquadrino “in una preesistente alterazione
patologica comportante infermità o seminfermità mentale” (Cassazione, Sezione
sesta, 23737/04; idem, Sezione prima, 11373/95; idem, Sezione prima, 7315/95;
idem, Sezione prima, 4954/93; idem, Sezione prima, 9801/92; idem, Sezione
prima, 4268/82); il criterio della patologicità esclude tutti quei disturbi che
trovino origine in situazioni di disagio socioambientale e familiare
(Cassazione, Sezione sesta, 31753/03).
8.2 Altro criterio, quello della intensità del disturbo psichico, ha portato a
ritenere che, anche a fronte di anomalie psichiche non classificabili secondo
rigidi e precisi schemi nosografici e, quindi, sprovviste di sicura (accertata)
base organica, debba considerarsi, ai fini della esclusione o della diminuzione
dell’imputabilità, la intensità dell’anomalia medesima, accertandosi se essa sia
in grado di escludere totalmente o scemare grandemente la capacità di intendere
e di volere (Cassazione, Sezione sesta, 22765/03). In tale contesto, un
orientamento giurisprudenziale esplicitamente muove dalla (altre volte
implicitamente ritenuta) distinzione tra i concetti di infermità e di malattia
mentale in senso strettamente clinico-psichiatrico, riconoscendo che alla base
dei primo vi è quello di stato patologico, ma che questo può caratterizzare non
solo le malattie fisiche o mentali in senso stretto, bensì anche le anomalie
psichiche non rinvenienti da sicura base organica, purché si manifestino con un
grado di intensità tale da escludere o scemare grandemente la capacità di
intendere e di volere (Cassazione, Sezione prima, 24255/04, che richiama la
distinzione tra “malattia in senso clinico -psichiatrico e malattia in senso
psichiatrico –forense”, e “uno stato patologico che, seppure non comprensivo
delle sole malattie fisiche e mentali nosograficamente classificate, sia
comunque riconducibile ad una infermità , ancorché non classificabile o non
insediata stabilmente nel soggetto...”; idem, Sezione prima, 19532/03; idem,
Sezione prima, 5885/97; idem, Sezione prima, 3536/97; idem, Sezione
prima,13029/89; idem, Sezione prima, 14122/86; idem, Sezione prima 2641/86;
cfr. anche Cassazione, Sezione quinta, 1536/98, che richiama,
disgiuntivamente, “una infermità o malattia mentale o comunque una alterazione
anatomico - funzionale”).
Altre decisioni fanno riferimento al valore di malattia, secondo uno dei criteri
elaborati dalla psichiatria forense, che così individua quelle situazioni che,
indipendentemente dalla qualificazione clinica, assumono significato di
infermità e sono idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere; si
ricomprendono, così, nella categoria dei malati di mente anche soggetti affetti
da nevrosi e psicopatie, quando tali disturbi si manifestino con elevato grado
di intensità e forme più complesse, tanto da integrare le connotazioni di una
vera e propria psicosi (Cassazione, Sezione prima, 19532/03; idem, Sezione
prima, 3536/97; idem, Sezione prima, 4492/87; idem, Sezione prima, 2641/86); ed
in tale contesto interpretativo si è dato rilievo ad alcune situazioni
classificabili borderline (Cassazione, Sezione prima, 15419/02; idem,
Sezione prima, 6062/00).
8.3 In molte decisioni ‑ secondo un indirizzo che, risalente, è riscontrabile
anche in pronunce recenti ‑, le quali volta a volta si rifanno ai criteri del
substrato patologico, del valore di malattia, della intensità del disturbo, si
individua un ulteriore requisito nella necessità della sussistenza di una
correlazione diretta tra il disturbo psichico e l’azione delittuosa posta in
essere dal soggetto agente, e quindi tra abnormità psichica effettivamente
riscontrata e determinismo dell’azione delittuosa (Cassazione, Sezione prima,
19532/03; idem, Sezione prima, 3536/97; idem, Sezione prima, 12366/90; idem,
Sezione prima, 4492/87; Cassazione, Sezione prima, 4103/86; idem, Sezione
prima, 14122/86). Si sono posti in rilievo - anche in dottrina - l’importanza e
la centralità di tale passaggio interpretativo, che giunge ad attribuire
“rilevanza alle caratteristiche cliniche del soggetto psicopatico che
determinano disarmonie nella personalità e sono capaci di alterare il meccanismo
delle spinte e delle controspinte all’azione”: il nesso di interdipendenza fra
reato e disturbo mentale consente di “ricercare nella vicenda storica quali
spinte interne abbiano condotto alla realizzazione del delitto e portato il
giudice ad indagare in concreto l’intensità della pressione esercitata dalla
situazione di stimolo”.
9.0 All’epoca in cui venne emanato l’attuale codice penale era ancora imperante
il paradigma medico - organicistico, ancorché già messo in crisi, quanto meno m
termini di certezza, dalle altre proposte dei modello psicologico, poi
successivamente diffusosi. Ed il legislatore dell’epoca, mosso da un “intento
generalpreventivo, mirante a bloccare alla radice dispute avanzate su basi
malsicure e pretestuose” (come si rileva in dottrina), quindi, poteva fare
affidamento su concetti ai quali si riconosceva una corrispondente base
empirica: quello di infermità mentale identificava la malattia mentale in senso
medico-nosografico.
Più in generale, è appena il caso di ricordare che quel testo normativo veniva
emanato sotto l’egida condizionante dell’ideologia dell’epoca che, nel contesto
del sistema del c.d. doppio binario (la pena tradizionale, inflitta su
presupposto della colpevolezza dell’imputato, e le misure di sicurezza, fondate
sulla pericolosità sociale del reo ed indirizzate alla sua risocializzazione),
risentiva del preminente intento generalpreventivo (nella Relazione ministeriale
al codice si affermava che “delle varie funzioni, che la pena adempie, le
principali sono certamente la funzione di prevenzione generale... e la funzione
c.d. satisfattoria...”, quest’ultima con un ruolo, quindi, “non autonomo, ma
strumentale rispetto all’obiettivo della prevenzione generale…”, come si annota
in dottrina), rifiutava il principio di presunzione di innocenza dell’imputato
(ritenuto il portato “delle dottrine demo - liberali, per cui l’individuo è
posto contro lo Stato, l’autorità è considerata come insidiosa e sopraffattrice
del singolo”) e faceva dire ad altre autorevoli espressioni della dottrina
dell’epoca che “lo Stato fascista, a differenza dello Stato democratico
liberale, non considera la libertà individuale come un diritto preminente, bensì
come una concessione dello Stato accordata nell’interesse della collettività”,
riaffermandosi “l’interesse repressivo” come suo “elemento specifico”, e
giungendosi, come ricorda autorevole dottrina, alla richiesta estrema di
sostituire la regola in dubio pro reo con quella in dubio pro
republica .
Ma i tempi sono cambiati. La Costituzione, l’affermarsi di un’ermeneutica
giuridico-penale orientata ai suoi principi informatori ed il proporsi di
paradagmi alternativi a quello medico hanno comportato un adeguamento delle
soluzioni, sul tema della imputabilità, alle nuove prospettive ed esigenze del
diritto penale moderno. Ed è, ovviamente, con tale nuova maturata ermeneutica
giuridico- penale e con tali nuove esigenze del diritto penale che il giurista
deve ora fare i conti, sul versante di un approdo interpretativo che - come
sopra si diceva - sia rispettoso del dettato della legge fondamentale, o
altrimenti ricognitivo della impossibilità della riconduzione della norma a tali
canoni di adesione e correttezza costituzionale.
9.1 Il legislatore del 1930 legiferò, dunque, tenendo presente quel modello
proposto dalla scienza medica, allora imperante, o comunque prevalente, e nei
lavori preparatori del codice si fece, coerentemente, riferimento al vizio di
mente “come conseguenza d’infermità fisica o psichica clinicamente accertata”,
ad una “forma patologicamente e clinicamente accertabile dì infermità”.
Da tanto, una voce autorevole della dottrina ha ritenuto che “il criterio
nosografico sia stato implicitamente recepito nel nostro ordinamento”, così
rispondendo al quesito che, “se si dovesse riconoscere nella infermità mentale
una categoria chiusa, l’argomento storico andrebbe - ovviamente - ritenuto
conclusivo per l’individuazione del modello di infermità penalmente rilevante”
difatti, “se il contenuto della categoria infermità di mente penalmente
rilevante era naturalmente offerto, al momento della redazione codicistica,
dalle sole patologie allora note alla scienza psichiatrica, non v’è dubbio...
che il corrispondente concetto, normativamente recepito, consistesse in quello
di lesione cerebrale a carattere organico”.
Tale assunto (che sembra, per vero, isolato nel panorama dottrinario) non può
condividersi.
Come, difatti, è stato già rilevato da altra autorevole dottrina, la
formulazione della norma è, in effetti, avvenuta con tecnica di “normazione
sintetica”, adottando, cioè, “una qualificazione di sintesi mediante l’impiego
di elementi normativi..., rinviando ad una fonte esterna rispetto alla
fattispecie incriminatrice”. In sostanza, “cosi operando, il legislatore
rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della
fattispecie, ma mediante una formula di sintesi (elemento normativo) rinvia ad
una realtà valutativa contenuta in una norma diversa, giuridica o extragiuridica
(etica, sociale, psichiatrica, psicologica)”.
Se così è, non può, dunque, dirsi che “il criterio nosografico sia stato
implicitamente e definitivamente recepito nel nostro ordinamento”, dovendosi
invece ritenere che la disposizione normativa si limitava a fare riferimento
alla norma extragiuridica, nel suo essere e nel suo divenire, e che la
individuazione di questa, nella sua realtà non solo attuale, ma anche
successivamente specificabile in itinere, spetta pur sempre oggi
all’interprete, che deve individuarla alla stregua delle attuali acquisizioni
medico - scientifiche al riguardo, non potendo, quindi, ritenersi
cristallizzato, come definitivamente acquisito dal nostro ordinamento, un
precedente parametro extragiuridico di riferimento, ove lo stesso sia superato
ed affrancato, nella sua inattualità ed obsolescenza, da altri (e veritieri)
termini di riferimento, e dovendosi invece, perciò, in proposito procedere in
costante aderenza della norma alla evoluzione scientifica, cui in sostanza
quella ab imis rimandava. Rimane, nondimeno, la problematicità del
rinvio, giacché la individuazione dei parametro normativo extragiuridico, già di
per sé incerto, può evidenziare connotati di indeterminatezza nella misura in
cui non trovi riscontri univoci nel contesto di riferimento, debordando verso
approdi di indeterminatezza contrastanti con il principio di tassatività.
10.0 In prima approssimazione, deve innanzitutto osservarsi che, in effetti -
come pure non si è mancato di evidenziare in dottrina - gli articoli 88 e 89 Cp
fanno riferimento non già ad una “infermità mentale”, ma ad una “infermità” che
induca il soggetto “in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere
e di volere” o da farla “scemare grandemente” (gli articoli 218 e 222 Cp, in
tema di presupposti per l’applicabilità della misura di sicurezza del ricovero
in ospedale psichiatrico o in una casa di cura o di custodia, parlano invece
espressamente di “infermità psichica”): se ne è giustamente inferito che “non è
l’infermità in se stessa (neppure, a rigore, la più grave) a rilevare, bensì un
“tale stato di mente”, da essa determinato, “da escludere la capacità di
intendere o di volere”, o da farla ritenere “grandemente scemata”; ulteriore
corollario di tale rilievo è l’annotazione che tali norme non circoscrivono il
rilievo alle sole infermità psichiche, ma estendono la loro previsione anche
alle infermità fisiche, che a quello stato di mente possano indurre.
10.1 Sempre per quanto concerne il dato testuale di tali nonne, deve, poi,
convenirsi con quanto rilevato in dottrina ed in più decisioni di questa Suprema
Corte (per tutte, esaustivamente, Cassazione, Sezione prima, 4103/86), ed
evidenziato nell’odierna udienza anche dal Pg requirente, che, cioè, il
concetto di “infermità” non è del tutto sovrapponibile a quello di “malattia”,
risultando, rispetto a questo, più ampio. Deve, invero, innanzitutto rilevarsi
la circostanza - evidenziata anche dalla difesa del ricorrente nell’odierna
discussione orale - che, a fronte di tale specifica indicazione di “infermità”,
il legislatore usi altrove espressamente il diverso termine di “malattia nel
corpo o nella mente” (articoli 582, 583 Cp). Ma, in ogni caso, brevemente
approfondendo il tema, mette conto di rilevare che in alcune delle più
autorevoli versioni dizionaristiche della lingua italiana, la malattia è
definita come “lo stato di sofferenza dell’organismo in toto o di sue parti,
prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che
ne derivano” ed “elemento essenziale del concetto di malattia è la sua
transitorietà, il suo andamento evolutivo verso un esito, che può essere, a
seconda dei casi, la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di
vita....”, avvertendosi anche che “dal concetto di malattia sono esclusi i
cosiddetti stati patologici, ossia quelle stazionarie condizioni di anormalità
morfologica, o funzionale, ereditaria, congenita o acquisita, in cui non vi sono
tessuti od organi in condizione di sofferenza e che sono compatibili con uno
stato generale di buona salute: anomalie e deformità varie, postumi di malattie
(come cicatrici e anchilosi), daltonismo, balbuzie, ecc..”; e solo
figurativamente il termine sta anche ad indicare “eccitazione, esaltazione,
esasperazione di un sentimento o di una passione; stato di forte tensione o
turbamento emotivo; situazione di squilibrio determinato da una fantasia troppo
accesa o anche da leggerezza, da stoltezza; attaccamento morboso; idea fissa,
mania; tormento, angoscia, sofferenza interiore...” La giurisprudenza di
legittimità formatasi in riferimento all’articolo 582 Cp ha ritenuto che “il
concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di
una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere
una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o
lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta,
l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte” (Cassazione, Sezione
quinta, 714/99; idem, Sezione quarta, 10643/96); che esso comporti “alterazioni
organiche o funzionali sia pure di modesta entità (Cassazione, Sezione prima,
7388/85), “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché
localizzata” (Cassazione, Sezione quinta, 5258/84), ed in tale concetto è stata
inclusa anche la “alterazione psicopatica” che sia in rapporto diretto di
causalità con la condotta dell’agente (Cassazione, Sezione quinta, 5087/87). E
questa Suprema Corte, affrontando il tema del significato del termine “dal punto
di vista etimologico” in specifico riferimento alla tematica che occupa, ha
rilevato che quello di “malattia indica un concetto dinamico, un modo di essere
che in un certo momento ha avuto inizio” (Cassazione, Sezione prima, 4103/86,
cit.).
Il termine “infermità”, invece, dal latino infirmitas, a sua volta
derivato da infirmus (in privativo e firmus, fermo, saldo, forte),
è dai dizionari della lingua italiana assunto come “termine generico per
indicare
qualsiasi malattia che colpisca l’organismo (o, più precisamente, lo stato, la
condizione di chi ne è affetto), soprattutto se permanente o di lunga durata e
tale da immobilizzare l’individuo, o da renderlo totalmente o parzialmente
inabile alle sue normali attività…”; esso indica la “condizione di chi è
ammalato, invalido. In particolare: qualsiasi tipo di malattia o di affezione
morbosa, per lo più grave e di carattere permanente, che colpisce una persona,
o, per estensione, il corpo, un suo membro, una sua parte Difetto fisico,
menomazione …Insufficienza, deficienza; inadeguatezza…”E la predetta sentenza di
questa Suprema Corte ulteriormente rileva che tale termine “esprime un concetto
statico, un modo di essere senza alcun riferimento al tempo di durata...”;
sicché, in sostanza, “la nozione medico-legale di malattia di mente viene
identificata nell’ambito della più vasta categoria delle ‘infermità...”,
riconoscendosi “un valore generico al termine infermità e un valore specifico al
termine malattia...”.
Anche a voler seguire l’opinione di una autorevole voce della dottrina, secondo
cui quella della differenza tra malattia ed infermità, nel contesto della
tematica che qui rileva, sarebbe, oggi, “una questione meramente nominale,
questione solo di parole, dietro cui non esiste più alcun concetto”, rimane,
nondimeno, che nella prospettazione codicistica, il termine di infermità deve
ritenersi, in effetti, assunto secondo una accezione più ampia di quello di
malattia, e già tanto appare mettere in crisi, contrastandolo funditus,
il criterio della totale sovrapponibilità dei due termini e con esso, fra
l’altro ed innanzi tutto, quello della esclusiva riconducibilità della
“infermità” alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato
organico, o, come altra volta è stato più restrittivamente detto, come “malattia
fisica del sistema nervoso centrale”.
10.2 Vero è, d’altra parte, che gli articoli 88 e 89 non possono non esser letti
che in stretto rapporto, sistematico e derivativo, con il generale disposto
dell’articolo 85 Cp, sicché, anche in riferimento alle rigide classificazioni
nosografiche della psichiatrica ottocentesca di stampo organicistico-
positivistico, pertinente è il rilievo di autorevole dottrina, secondo cui,
proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di “infermità” rispetto a
quello di “malattia”, “non interessa tanto che la condizione del soggetto sia
esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di
medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere
gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di
recepire il significato del trattamento punitivo”, che lasci integra o meno la
capacità di “poter agire altrimenti”, posto che - come di sopra si è già
accennato - solo nei confronti di soggetti dotati di tali capacità può
concretamente parlarsi di colpevolezza. E si è da altra autorevole voce della
dottrina anche osservato che “certo, una formulazione normativa che, seppure a
livello esemplificativo, intervenga a sottolineare più incisivamente il
potenziale rilievo di disturbi psichici che, anche al di fuori di malattie
psichiatriche..., valgano egualmente ad indiziare l’imputabilità..., è in sede
di riforma auspicabile. Essa non è però essenziale, poiché anche l’attuale
articolo 88, interpretato nel sistema delineato dall’articolo 85 (soprattutto) e
dalle altre disposizioni in tema di capacità di intendere e di volere, consente
di pervenire alle medesime conclusioni”.
Tanto comporta anche la irrimediabile crisi del criterio della ritenuta
necessaria sussumibilità dell’anomalia psichica nel novero delle rigide e
predeterminate categorie nosografiche. D’altronde, a tale sostanzialistica
esigenza mostrano, talora implicitamente, di fare riferimento tutte quelle
decisioni di questa Suprema Corte, le quali hanno ritenuto che sia essenziale
non tanto la rigida classificabilità del disturbo psichico in una specifica
categoria nosografica, quanto, invece, la sua attitudine ad incidere,
effettivamente e nel caso concreto, nella misura e nei termini voluti dalla
norma, sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente (Cassazione,
Sezione prima, 33230/04; idem, Sezione prima, 24255/04; idem, Sezione prima,
19532/03; idem, Sezione prima, 558/92; idem, Sezione prima, 858/01; idem,
Sezione prima, 13029/89; idem, Sezione prima, 4861/88; idem, Sezione prima,
4492/87; idem, Sezione prima, 4103/86; idem, Sezione prima, 7327/82).
Ed avverte al riguardo autorevole dottrina che, in prospettiva riformistica,
oggi “del tutto risibile sarebbe una scelta del legislatore a favore del metodo
nosografico di stampo tradizionale, in particolare di tipo rigido”, giacché la
nuova maturata realtà psichiatrico - forense “mostra quello che appare
l’irreversibile superamento di una possibile soluzione normativa in tal senso
della questione imputabilità. Scelte di tal genere porterebbero allo scollamento
fra il dato empirico e quello legislativo e a una eccessiva rigidità della
disciplina normativa in punto di imputabilità, a scapito delle istanze
garantistiche dettate dal principio di colpevolezza e da quello di
risocializzazione”, e dovendo, semmai, il legislatore orientarsi “a livello
normativo a soluzioni tipiche del programma c.d. di scopo” occorrendo al
riguardo “potenziare quello che si è definito il terzo piano del giudizio di
imputabilità, cioè quello sanzionatorio, relativo all’opportunità di punire e
alla scelta del tipo di sanzione in ragione della sensibilità che il singolo
agente manifesta nei confronti della stessa”.
11.0 Il più moderno e diffuso Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi
mentali, il DSMAV, messo a punto dall’American Psychiatric Association
nel 1994 ‑ in gran parte sovrapponibile all’altra classificazione dettata dall’ICD
10, adottata nel 1992 da gran parte degli Stati membri della Organizzazione
Mondiale della Sanità -, utilizzato da quasi tutti gli esperti psichiatri,
enuclea - con una nomenclatura nosografica che richiama sindromi e non malattie
- i principali disturbi mentali in diciassette classi diagnostiche, e tra queste
include l’autonoma categoria nosografica dei disturbi della personalità,
che comprende, suddivisi in tre gruppi, il disturbo paranoide di personalità,
quello schizoide, quello schizotipico, quello antisociale, quello bordeline,
quello istrionico, quello narcisistico, quello evitante, quello dipendente,
quello ossessivo compulsivo, e rimanda anche ad una categoria residua, quella
del “disturbo di personalità non altrimenti specificato” nella quale andrebbero
ricondotte 1e alterazioni di funzionamento della personalità che non soddisfano
i criteri per alcuno specifico disturbo della Personalità”.
Tali disturbi della personalità rientrano nella più ampia categoria delle
psicopatie, ben distinta, com’è noto, da quella delle psicosi, queste ultime
considerate, anche dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr.,
ex ceteris, Cassazione, Sezione sesta, 24614/03; idem, Sezione prima,
659/97), vere e proprie malattie mentali, comportanti, una perdita dei confini
dell’Io; il disturbo della personalità, invece, si caratterizza come “modello
costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente dalle
aspettative di cultura dell’individuo”, e “i tratti di personalità vengono
diagnosticati come Disturbo della Personalità solo quando sono inflessibili, non
adattivi, persistenti, e causano una compromissione sociale significativa o
sofferenza soggettiva”.
D’altronde, pure si annota in dottrina che nel 1997, nel nostro Paese, i
disturbi della personalità hanno inciso notevolmente sul numero delle ammissioni
ai servizi psichiatrici degli istituti di cura: su un totale di 52.443
ammissioni per “neurosi e turbe psichiche non psicotiche”, ben 10.862 sono stati
per disturbi della personalità; ed anche tali dati empirici, pure indicativi di
un generalizzato apprezzamento medico-diagnostico di siffatte patologie, non
possono non assumere notevole rilievo al riguardo.
In dottrina sono state espresse riserve su tale catalogazione, rilevandosi il
suo “eccessivo nominalismo” e come essa consegua alla premessa che “non esiste
una definizione soddisfacente che specifichi i precisi confini del concetto di
disturbo mentale” e ponendosi “l’altra difficoltà, di ordine semantico, relativa
all’uso di questa o quella terminologia per definire la stessa sindrome che
spesso appare trattata come se fosse entità clinica a sé stante...”.
Si è anche rilevato che - come già anticipato - nel DSM “il concetto di
disturbo si colloca al di fuori di una ottica eziopatogenetica”, cioè “non si
parte dall’idea, che a ogni disturbo corrisponde una entità fondata su una
specifica eziopatologia”, ma “si parla di disturbo solo in senso sindromico”.
Ora, queste ed altre osservazioni critiche meritano indubbia attenzione, sia per
la soggettiva autorevolezza della fonte che le esprime, sia per la oggettiva
loro rilevanza.
E però, anche la dottrina psichiatrico - forense appare concordare, ormai, sulla
circostanza che, essendo questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso
occorra fare riferimento per la riconducibilità classificatoria del disturbo; e,
per altro verso, nessun dubbio - come pure si riconosce in dottrina - dovrebbe
oggi permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa
essere riconosciuta la natura di “infermità”, e quindi una loro potenziale
attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto
agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del
sapere psichiatrico, anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel
citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si fonda su basi sindromiche e
non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura
sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente
orientata la attuale scienza psichiatrica), per un verso (come ancora si annota
in dottrina), è presente nella psichiatria forense “un consenso quasi unanime
circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia
mentale” e, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema
Corte, come si è visto, l’affermazione che rilevino al riguardo anche “disturbi
clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso significativamente sul
funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto”. La non
definibilità clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non
accertabilità eziologia dello stesso, in un campo poi, quello della mente umana,
ancora avvolto da cospicue connotazioni di “dubbio e mistero” e da incoglibile
esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di “malattie
funzionali: termine usato per indicare le malattie in cui non vi sono segni
dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le prestazioni di
essi siano ridotte”.
E quanto all’ “eccessivo nominalismo” ed ai limiti “di ordine semantico” della
espressione, deve ritenersi che (non solo de iure condito, ma,
verosimilmente, anche de iure condendo, in riferimento a progetti di
riforma di cui più oltre si dirà) il problema non sembra essere quello del
riferimento meramente nominalistico ad una formula piuttosto che ad un’altra,
che, da sole, difficilmente possono avere assoluta ed oggettiva capacità
descrittiva e chiarificatrice, definitivamente risolutoria; qualificata dottrina
medico- legale pure afferma, al riguardo, che “appare un semplice esercizio
dialettico disquisire su infermità ed anomalia e sulle etichette diagnostico -
nosografiche perché al legislatore ed al giudice non interessa quello che c’è a
monte ma se la capacità di intendere o di volere era (o non era) annullata o
grandemente scemata al momento del fatto” (può osservarsi che, in verità, al
giudice deve interessare anche “quello che c’è a monte”, esso costituendo snodo
rilevante per la espressione ed il controllo del giudizio sulle capacità
intellettive e cognitive dell’agente; ma, indubitabilmente, ciò che
definitivamente rileva è solo l’accertamento di queste ultime, ai finì
dell’imputabilità). Si tratta, invece, di stabilire in concreto, e non in
astratto, la rilevanza di alcune tipologie di disturbi mentali, sicché, quanto a
quella del “disturbo di personalità” che qui interessa, si tratta di accertare e
stabilire come esso si manifesti in concreto, nel soggetto, nel caso singolo: ed
ove l’accertamento svolto sia indicativo di una situazione di infermità mentale
che escluda la rimproverabilità della condotta al soggetto agente, cioè la sua
colpevolezza ‑ secondo quanto si è sopra detto ‑, non può non trovare
applicazione il disposto della norma in questione, in riferimento al generale
principio indicato dall’articolo 85 Cp.
E per il resto, quanto al rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio
(quello biologico e quello normativo), il secondo non appare poter prescindere,
in ogni caso, dai contenuti dei sapere scientifico, dovendosi anche ritenere
superato l’orientamento inteso a sostenere la “estrema normativizzazione del
giudizio sulla imputabilità”, che sostanzialmente finisce col negare la base
empirica del giudizio medesimo, pervenendo “alla creazione di un concetto
artificiale”; sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno
normativo, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a
quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare - pena la impossibilità
stessa di esprimere un qualsiasi giudizio -e, pur in presenza di una varietà di
paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni
scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso,
siano quelle più generalmente accolte, più condivise, finendo col costituire
generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi
protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d’altra parte
e più in generale, ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che
scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene assegnato, anche
dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta
considerate assolutamente “esatte”, del tutto pacifiche e condivise (nel
tramonto “dell’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità
necessarie o per evidenza o per dimostrazione”, come è stato autorevolmente
scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo dei sapere medico.
Non sembra, difatti, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, e pur
nella varietà dei paradigmi al riguardo proposti e della relativa indotta
problematica difficoltà, che possa pervenirsi ad un conclusivo giudizio di
rinvio a fatti “non razionalmente accertabili” a fattispecie non “corrispondenti
a realtà”, “da non consentire in alcun modo una interpretazione ed una
applicazione razionali da parte del giudice”, situazione che, ove sussistente,
sarebbe senz’altro indiziata di evidente contrasto coi principio di tassatività
(Corte costituzionale 96/1981; idem 114/98), per altro verso inducente ad un
conseguente giudizio di impossibilità oggi, e verosimilmente domani, di dare
attuazione al disposto dell’articolo 85 Cp e, prima ancora, di mantenere tale
norma, laddove, per vero - come è detto nella relazione della Commissione al
Progetto c.d. Grosso del 2000 -, “il mantenimento della distinzione fra soggetti
imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale
garantistico” e la dottrina rimarca che “il concetto di imputabilità... è del
tutto fondamentale e del resto ben saldo nella cultura, nella costruzione e
negli sviluppi del diritto penale moderno”.
11.1 Deve, dunque, ritenersi che anche ai disturbi della personalità può essere
attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a proporsi come causa
idonea ad escludere o grandemente scemare (in presenza di determinate
condizioni, di cui più oltre si dirà), in via autonoma e specifica, la capacità
di intendere e di volere del soggetto agente. D’altra parte, anche quell’indirizzo
che fa leva sul “valore di malattia” appare evocare un concetto psicopatologico
forense, idoneo ad individuare situazioni che, indipendentemente dalla loro
qualifica clinica, “assumono significato di malattia”, meglio “significato di
infermità”, per quanto si è sopra chiarito, e quindi idonee ad incidere sulla
predetta capacità di intendere e di volere: e pure si avverte che, in ogni caso,
“se un tempo si affermava che non tutte le malattie in senso clinico avessero
valore di malattia in senso forense, oggi si pone soprattutto l’accento sul
fatto che, viceversa, vi possono essere situazioni clinicamente non rilevanti o
classificate che in ambito forense assumono valore di malattia in quanto possono
inquinare le facoltà cognitive e di scelta”.
12.0 Del resto, anche le più recenti legislazioni di altri Paesi (l’articolo
122.1 dei codice penale francese, modificato nel 1993; l’articolo 20 del codice
penale tedesco, modificato nel 1975; l’articolo 37 del codice penale olandese;
l’articolo 20 del codice penale spagnolo, modificato nel 1995; l’articolo 104
del codice penale portoghese, modificato nel 1995; l’articolo 16 del codice
penale sloveno del 1995; una nuova legge in materia psichiatrica introdotta in
Svezia nel 1992) appaiono discostarsi da un rigido modello definitorio, in
favore di clausole “aperte” che, in uno con i criteri normativi, psicologici e
biologici, siano idonee alla espressione di un giudizio sulla capacità di
intendere e di volere, rispettoso delle esigenze garantistiche e preventive
indotte dal caso concreto.
Tali formule “aperte” (“disturbo psichico o neuro psichico” “turbe mentali
patologiche, per un profondo disturbo della coscienza, per deficienza mentale od
altra grave anomalia mentale”, “condizioni psicopatologiche di carenza dello
sviluppo o disturbo morboso delle capacità mentali”, “qualsiasi anomalia o
alterazione psichica” “anomalia psichica”, ‘Infermità mentale permanente o
temporanea, disturbi psichici temporanei, sviluppo psichico imperfetto o altra
anomalia psichica permanente e grave”, “ “disturbo psichico”) appaiono idonee ad
attribuire rilevanza anche ai disturbi della personalità, ai fini della
imputabilità del soggetto agente.
1 E ciò che accomuna queste disposizioni normative appare essere non solo
l’adozione di formule “aperte”, elastiche, ma anche l’aver ancorato la
valutazione del disturbo alla sua incidenza sulla capacità di valutazione del
fatto dì reato e quindi della capacità di comportarsi secondo tale valutazione,
con la prospettazione, quindi, di un nesso eziologico fra infermità e reato,
assunto a requisito della non imputabilità.
Può soggiungersi che nelle conclusioni del 7 Colloquio Criminologico del
Consiglio d’Europa (Strasburgo, 25/27 novembre 1985), si osservava, tra l’altro,
che le legislazioni penali esistenti negli Stati membri del Consiglio d’Europa
presentano una notevole varietà circa le terminologie ed i concetti fondamentali
concernenti la nozione di responsabilità dell’autore di un reato e dei fattori
che possono escludere o attenuare la stessa”, e che “la tendenza prevalente è di
porre agli esperti un quesito che comprenda, nello stesso tempo, l’aspetto
psicopatologico (malattia mentale) e l’aspetto giuridico-normativo
(responsabilità o concetti similari)...”.
13.0 Le incertezze interpretative e conseguentemente applicative collegate alla
esatta individuazione del concetto di malattia mentale, o di infermità mentale,
sia sul versante psichiatrico che su quello giuridico, sono state da tempo
oggetto di riflessioni e di proposte nell’ambito di progetti di riforma del
codice penale.
Così, nello schema di disegno di legge delega del 1992 (c.d. Progetto Pagliaro),
era prevista (articolo 34) la esclusione della imputabilità per il soggetto che,
al momento della condotta, “era, per infermità di mente o per altra anomalia...,
in tale stato di mente da escludere la capacità. di intendere o di volere... Nei
casi suddetti, se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata,
ma non esclusa, diminuire la pena”.
Nello schema dei disegno di legge n. 2038/S del 1995 (c.d. Progetto Ritz) si
prevedeva (articolo 83) che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha
commesso il fatto, era, per infermità o per gravissima anomalia psichica, in
tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”; e sugli
stessi presupposti era disciplinato il vizio parziale di mente (articolo 84).
Nel progetto preliminare di riforma del codice penale (c. d. Progetto Grosso),
nel testo del 12 settembre 2000, si prevedeva (articolo 96) che “non è
imputabile chi, per infermità o per altra grave anomalia...., nel momento in cui
ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la
possibilità di comprendere l’illiceità del fatto o di agire in conformità a tale
valutazione”.
Nel testo del 26 maggio 2001, più esplicitamente per il tema che qui interessa,
si prevedeva (articolo 94) che “non è imputabile chi, per infermità o altro
grave disturbo della personalità..., nel momento in cui ha commesso il fatto era
in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il
significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione”. E nel
disciplinare la “finalità del trattamento e diminuzione di pena” (articolo 100),
si richiamava ancora la “infermità o altro grave disturbo della personalità”.
Quanto al primo di tali testi del c.d. Progetto Grosso, sì legge nella relativa
Relazione che “potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula dei codice
vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell’evoluzione
giurisprudenziale cui essa ha dato luogo” ma che, nondimeno, sì ritiene
“preferibile un chiarimento legislativo, mediante l’introduzione, accanto alla
infermità, della formula della grave anomalia psichica”, che “renderebbe più
sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione
dell’imputabilità, di situazioni problematiche, come le nevrosi e le psicopatie,
o stati momentanei dì profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere
base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza”. Ed alle obiezioni circa il
rischio di un possibile indebolimento della tenuta general preventiva del
sistema penale, si rispondeva rilevando che “nessuna patente di irresponsabilità
si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile
di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini
dell’imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi”.
L’espressione “grave anomalia” è stata, poi, sostituita con quella “altro grave
disturbo della personalità anche a seguito dello scetticismo mostrato dalla
scienza psichiatrica, che ha rivendicato la utilizzazione della più scientifica
definizione del termine “disturbo mentale” e delle riserve avanzata dalla
dottrina penalistica, che ha rilevato come il generico contenuto del termine
“anomalia” (che “ripropone l’inesistente parametro
della normalità”) si affianchi a quello altrettanto generico di “infermità”, con
il rischio di aprire varchi eccessivi a disturbi minori, senza che il richiamo
alla “gravità” possa fungere da serio elemento frenante. Ed ha rilevato la
Commissione che “la scelta legislativa più ragionevole” è da individuare in
quella di “assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al
sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando
formule atte a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui dal
dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza”.
Pur evidenziandosi in dottrina una certa ambiguità anche di tale formula
sostitutiva, rimane che anche i progetti di riforma del codice sostanziale, sul
punto, appaiono improntati ad un orientamento “aperto” nella individuazione
della malattia (rectius: infermità) penalmente rilevante e sembrano
orientare verso tendenze sostanzialmente conformi a quelle codificate in altri
Paesi, abbandonando definitivamente - anche per espresso dictum lessicale
- un rigido modello definitorio ed optando per la utilizzazione di formule
“elastiche”.
V’è da aggiungere che nel Progetto del codice penale del 2004 (c.d. Progetto
Nordio), che allo stato è possibile conoscere solo nel suo testo provvisorio e
non ufficiale, si prevede (articolo 48) che “nessuno può essere punito per un
fatto previsto dalla legge come reato se nel momento della condotta costitutiva
non aveva, per infermità, la capacità di intendere e di volere, sempre che il
fatto sia stato condizionato dalla incapacità. Agli effetti della legge penale
la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il
significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione”.
Sembra, quindi, che rimanga sostanzialmente immutato l’attuale riferimento
lessicale al termine “infermità”; e si legge nel commento di accompagnamento che
“si ritiene irrinunciabile il riferimento all’infermità, pur tenendosi presenti
i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni
scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde
evitare gli sbandamenti applicativi - con apertura a tutti i più originali e
diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale - quanto
mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed
onnicomprensive del tipo disturbo psichico, disturbo della personalità,
psicopatia (fenomeni, secondo prassi censurabili, valutati anche da non
specialisti psichiatrici o medico-legali sulla base di parametri socio
-culturali, tipo l’abusata figura del soggetto c.d. border line”).
14.0 Anche per tali vie (gli esempi provenienti dalle legislazioni
straniere, indicativi di un modello “aperto” di disciplina normativa, e, quanto
meno, la gran parte dei progetti riformatori) appare confermarsi l’orientamento
del riconoscimento di possibile rilevanza penale ai disturbi della personalità;
ed in tal senso appaiono orientati, ancorché con grande cautela, anche cospicua
parte della dottrina, della scienza psichiatrica che dà maggiore valore ai
contenuti psicologici della infermità mentale, quel filone della giurisprudenza
di legittimità del quale si è sopra già detto.
Tale conclusivo divisamento, del resto, si appalesa, al postutto, pienamente in
consonanza col disposto dell’articolo 85 Cp - di cui, anzi, si pone come
includibile germinazione - e, più in generale ed ancor prima, con la
impostazione sistematica dell’istituto, secondo il suo orientamento
costituzionale cui sopra si è accennato: ai fini di tale codificato generale
principio, difatti, non può non rilevare una situazione psichica che, inserita
nel novero delle “infermità”, determini, ai fini della imputabilità, una
incolpevole non riconducibilità di determinate condotte al soggetto agente,
quale persona dotata “di intelletto e volontà”, libera di agire e di volere,
cognita del valore della propria azione, che ne consenta la sua soggettiva
ascrizione, senza che su tale sostanziale condizione possa fare aggio la
mancanza (o la difficoltà) della sua riconducibilità ad un preciso, rigido e
predeterminato, inquadramento clinico, una volta che rimanga accertata la
effettiva compromissione della capacità di intendere e di volere.
15.0 Lo stesso letterale disposto degli articoli 88 e 89 Cp indica che non è
sufficiente, ai fini della imputabilità, l’accertamento della infermità (per
quanto grave essa possa essere, nel suo inquadramento nosografico), ma, nel
contesto di un indirizzo “biopsicologico” che si ritiene accolto dal
legislatore, è necessario accertare, in concreto, se ed in quale misura essa
abbia inciso, effettivamente, sulla capacità di intendere e di volere,
compromettendola del tutto o grandemente scemandola.
Per quanto riguarda, quindi, per quel che più specificamente qui interessa, i
disturbi della personalità, essi - che innanzitutto si caratterizzano, secondo
il predetto manuale diagnostico, per essere “inflessibili e maladattativi”-
possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza
e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di
volere. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della personalità, come in genere
quelli da nevrosi e psicopatie, quand’anche non inquadrabili nelle figure
tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle
“malattie” mentali, possono costituire anch’esse “infermità”, anche transeunte,
rilevante ai fini degli articoli 88 e 89 Cp, ove determinino lo stesso risultato
di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive.
Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in
effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed
ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l’agente
incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente
indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente,
liberamente, autodeterminarsi: ed a tale accertamento il giudice deve procedere
avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, l’indispensabile apporto e
contributo tecnico, ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile
dalle acquisizioni processuali.
Tali requisiti ha più volte evocato la giurisprudenza di questa Suprema Corte
che ha esaminato la incidenza, in subiecta materia, per lo più delle
psicopatie, nel cui novero sono ascrivibili, come s’é detto, i disturbi della
personalità. Si è, così, fatto riferimento, nei diversi e variegati contesti
motivazionali apprezzati, ai casi in cui ... “le c.d. personalità
psicopatiche..., per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato
patologico, uno squilibrio mentale incidente sulla capacità di intendere e di
volere” (Cassazione, Sezione prima, 33130/04, in una fattispecie in cui è stata
esclusa la rilevanza di un disturbo della personalità di tipo bordeline,
“analiticamente e puntualmente motivato”; idem, Sezione sesta, 7845/97, ancora
in tema di un disturbo della personalità bordeline); al “carattere di
cogente imperatività” (Cassazione, Sezione prima, 27708/04, in riferimento a
“disturbo delirante cronico”); alla infermità “che incida in modo rilevante sui
processi intellettivi e volitivi”, rendendo il soggetto incapace “di rendersi
conto del valore delle proprie azioni e di determinarsi in modo coerente con le
rappresentazioni apprese” (Cassazione, Sezione prima, 24255/04, a proposito di
“particolari tratti della personalità” e di un prospettato, ma escluso,
“disturbo bordeline di personalità”); alla manifestazione del disturbo
“con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli
estremi di una vera e propria psicosi” (Cassazione, Sezione prima,19532/03, a
proposito di “nevrosi e psicopatie”; idem Sezione prima, 3536/97, ancora a
proposito di “nevrosi e psicopatie” e sussistenza o meno di una “degenerazione
della sfera intellettiva e cognitiva dell’agente”); alla sussistenza di “una
persistente coscienza ed organizzazione del pensiero” o di “un’avvenuta rottura
del rapporto con la realtà”(Cassazione, Sezione prima, 15419/02, a proposito di
“disturbi della personalità di tipo bordeIine” con “componenti
narcisistiche” ritenute, nella specie, non “sufficienti a configurare una
situazione di impossibilità di scegliere”); ad “uno squilibrio mentale a causa
della intensità delle deviazioni caratteriali” (Cassazione, Sezione prima,
13029/89, indotto da “una gravità della psicopatia tale da determinare un vero e
proprio stato patologico”); ad una “rivoluzione psicologica interna per cui
l’individuo è diventato estraneo a se stesso” ad “una effettiva compromissione
della coscienza, attestata da uno stato confusionale acuto” (Cassazione, Sezione
prima, 4492/87). Anche l’indirizzo giurisprudenziale che, più specificamente ed
esplicitamente, fa riferimento al “valore malattia” appare prospettare non già
una sovrapposizione nosografica dei due termini e’”malattia” ed “infermità”), ma
piuttosto una coincidenza di risultati valutativi quanto ai , finali esiti della
sussistenza o meno di una compromissione della capacità intellettiva e volitiva:
il tema risulta in particolare più diffusamente affrontato nella citata sentenza
n. 4103/1986, della 1 sezione penale, la quale - puntualizzata la differenza tra
“malattia” ed “infermità” - rileva che con tale ultimo concetto “si intende
esprimere il grado di diversità fra le direttive abituali di una personalità ed
i modi di reazione suoi propri, da un lato, ed il suo comportamento abnorme
dall’altro, in modo da poter chiarire come, partendo dall’essere infermo
dell’individuo, siano state in concreto limitate o addirittura annullate le
possibilità di un minimo adattamento individuale alla convivenza sociale”.
15.1 Ne consegue, per converso, che non possono avere rilievo, ai fini della
imputabilità, altre “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”
“alterazioni di tipo caratteriale” “deviazioni del carattere e del sentimento”
quelle legate “alla indole” del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del
processo psichico di determinazione e di inibizione, non si rivestano, tuttavia,
delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di
incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente, nei termini
e nella misura voluta dalla norma, secondo quanto sopra si è detto. (cfr., ex
ceteris, Cassazione, Sezione terza, 22834/03; idem, Sezione sesta,
7845/97). Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e
passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all’articolo 90 Cp
(sul quale, peraltro, pure si appuntano critiche dottrinarie, ritenendosi, fra
l’altro, tale disposizione “priva di una fondata base empirica e motivata
piuttosto da mere considerazioni di prevenzione generale e per questo in
contrasto con il principio di colpevolezza”), salvo che essi non si inseriscano,
eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di
“infermità”, avente le connotazioni sopra indicate (Cassazione, Sezione prima,
967/98; idem, Sezione prima, 3170/95; idem, Sezione prima, 12429/94; idem,
Sezione prima, 4954/93; idem, Sezione prima, 1347/91; idem, Sezione quinta,
8660/90; idem, Sezione prima, 9084/87; idem, Sezione sesta, 2285/85); concordi
su tanto anche autorevoli voci della dottrina, che fanno riferimento a “casi di
estrema compromissione dell’Io”.
16.0 E’, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato
sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente
determinato dal primo.
Invero, la dottrina ha da tempo posto in rilievo come le più recenti
acquisizioni della psichiatria riconoscano spazi sempre più ampi di
responsabilità al malato mentale, riconoscendosi che, pur a fronte di patologie
psichiche, egli conservi, in alcuni casi, una “quota di responsabilità” ed a
tali acquisizioni appare ispirarsi anche la legge 180/1978, nel far proprio
quell’orientamento psichiatrico secondo cui la risocializzazione dell’infermo
mentale possa avvalersi anche della sua responsabilizza ione in tal senso.
L’esame e l’accertamento di tale nesso eziologico si appalesa, poi, necessario
al fine di delibare non solo la sussistenza dei disturbo mentale, ma le stesse
reali componenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico -
soggettivo dei suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma
reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera
di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico
fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al
giudice - cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo - di compiutamente
accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se,
quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel
disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo
“settoriale”), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della
condotta: il tutto in un’ottica, concreta e personalizzata, di rispetto della
esigenza general preventiva, da un lato, di quella individual garantista,
dall’altro.
Né può ritenersi che a tanto osti il dettato della norma: facendo essa
riferimento solo “al momento in cui lo ha commesso” si intende, con ciò,
postulare la necessaria attualità della capacità di intendere e di volere a quel
momento, ma non si esclude affatto che quella capacità debba essere, appunto a
quel momento, valutata, nella sua incidenza psico-soggettiva in riferimento al
fatto medesimo, in relazione alle connotazioni motivanti ed eziologiche dello
stesso.
Ed a tali principi si sono spesso richiamate, già da tempo, molte sentenze di
questa Suprema Corte (Cassazione, Sezione prima, 4103/86; idem, Sezione prima,
4122/86; idem, Sezione prima, 14122/86; idem, Sezione prima, 4492/87; idem,
Sezione prima, 1302/89; idem, Sezione prima, 12366/90; idem, Sezione prima,
3536/97; idem, Sezione prima, 19532/03).
17.0 Possono a tal punto raccogliersi le fila del discorso giustificativo sin
qui svolto e trarsi la conclusione che deve essere affermato il seguente
principio di diritto, ai sensi dell’articolo 173.3 disp. att. Cpp.: ai fini del
riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di
“infermità” anche i “gravi disturbi della personalità” a condizione che il
giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare
grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la
specifica azione criminosa.
18.0 Alla stregua di tanto, sussistente si appalesa l’error iudicis nel
quale è incorsa la sentenza impugnata; la quale è erroneamente pervenuta alla
esclusione del vizio parziale di mente evocando il criterio della “alterazione
patologica clinicamente accertabile” e della “alterazione anatomico -funzionale
della sfera psichica”, ritenendo che in ogni caso i “disturbi della
personalità... non integrano quella infermità di mente presa in considerazione
dall’articolo 89 Cp”.
Gli ulteriori profili di doglianza, come già anticipato, sono stati prospettati
dal ricorrente ‑ la cui difesa tanto ha espressamente ribadito anche
nell’odierna udienza ‑ come intimamente, e propedeuticamente,
connessi al primo motivo di censura; sicché essi ne rimangono, allo stato,
assorbiti.
19.0 La decisione va, dunque, annullata, con rinvio, per nuovo giudizio ad altra
sezione della Corte di Assise di Appello di Roma
PQM
La
Corte annulla l’impugnata sentenza e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte di Assise di Appello di Roma.